8
Apr
2011
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Sicurezza: non passa l’esame costituzionale il pacchetto del Ministro della Paura

Vi ricordate il 2008, quando nei primi 100 giorni il governo del fare dire baciare (soprattutto del dire e baciare) affrontò di petto, dopo decenni di notorio buonismo di sinistra, le emergenze del paese? Prima tra tutte l’emergenza sicurezza: cavallo di battaglia di tutte le campagne elettorali della destra padana degli ultimi anni. Uscivamo da mesi di ossessivi bombardamenti mediatici di cronaca nera: l’omicidio Reggiani a Roma, nella sua terribile tragicità, e l’ingresso della Romania nell’Unione Europea del 2007, avevano dato fiato ai peggiori istinti xenofobi e ad una cinica campagna elettorale che, usando la paura e l’allarme sociale, gridava all’invasione, al Bel Paese in mano a bande criminali di origine straniera (perché per quelle di casa nostra pare che non ci sia la stessa paura).

La Lega Nord riempiva i muri di manifesti con Toro Seduto nelle riserve e annunciava, una volta arrivata al governo, che avrebbe risolto tutto, ma proprio tutto. Detto fatto: il buon Ministro Maroni, che in virtù dell’emergenza aveva ottenuto il Ministero dell’Interno, si mise di buona lena a varare il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, un insieme di misure che avrebbero dato risposta a tutte le paure, negli anni alimentate e nutrite dalla ripetizione ossessiva di luoghi comuni e alcuni  fatti reali.

Con il piglio  tipico di “chi è vicino alla ggente” il buon Ministro della Paura non si fermò di fronte a nulla: giuristi che invocavano il rispetto della Costituzione, Sindacati di Polizia che affermavano il primato dello Stato e delle Istituzioni nel garantire ordine pubblico, le opposizioni che contrastavano punto per punto lo scempio giuridico e politico delle misure, le organizzazioni internazionali, il Consiglio d’Europa, il Parlamento Europeo, le associazioni e le categorie che manifestavano contrarietà e preoccupazione, i sindacati,  la Caritas, la Comunità di Sant Egidio, le Acli, l’Arci… Buonisti, tutti. Buonisti e da salotto, perché i problemi veri non hanno bisogno di tutte ‘ste chiacchiere da intellettualoidi.

Il pacchetto sicurezza del 2008 introduceva l’aggravante di clandestinità, facendo passare l’idea che se ti deruba un clandestino è più grave che se ti deruba uno con la Carta d’Identità.

Le vittime fanno fatica a capirlo, perché sempre di un furto si tratta, ma vabbè.  Nel 2009, siccome non sembrava sufficiente, la clandestinità divenne reato tout court. Tutto ciò ha portato, a cascata, ad una serie di conseguenze: i dubbi sull’obbligo di denuncia per un Pubblico Ufficiale che venga a conoscenza della condizione di clandestinità di una persona (medici, insegnanti, vigili e così via),  l’ampliamento dei CIE, l’intasamento delle Procure e dei Tribunali, l’avvio di migliaia di processi e provvedimenti di espulsione, spesso non eseguiti per mancanza di mezzi.

L’inasprimento delle norme contenute dalla Bossi-Fini – sciagurata legge della stagione precedente, evidentemente troppo buonista pure lei – che rendono una corsa ad ostacoli, pagata carissima dagli immigrati nel senso letterale del termine, l’ottenimento o il rinnovo dei permessi di soggiorno, le pratiche per il ricongiungimento familiare e così via. Con il risultato di avere milioni di persone (quasi 5 per l’esattezza), magari qui da decenni, che sbattono come falene impazzite sulla burocrazia, le code, le marche da bollo, i rinvii, le ricevute, il rischio di diventare clandestini – e quindi criminali – per una carta che manca, un documento non fotocopiato, un posto di lavoro perso. Famiglie spezzate, mogli con il permesso di soggiorno e mariti che lo perdono, cassaintegrati che vivono l’ossessione della fine della CIG perché sanno che senza contratto non c’è permesso. E senza permesso vale poco che tu abbia lavorato per decenni, pagato le tasse, l’INPS, l’INAIL: Foera dai ball, ecco!

Ciliegina sulla torta: i sindaci. Garanti del “prima i nostri”, i sindaci ricevono potere di ordinanza per affrontare, finalmente, le paure delle loro comunità locali. Poteri speciali, dice il Ministro della Paura. Così finalmente nei paesi e nelle città scenderà la coltre della sicurezza, del controllo e dell’ordine. Garantito magari dalle Ronde – anche quelle meteore demagogiche inefficaci e inutili. Nella Padania che non esiste cominciano a fioccare muscolari ordinanze che mettono in riga i comportamenti difformi. Prende un po’ la mano, questo eccesso di potere: si va dal divieto per i non cristiani di avvicinarsi a più di 15 metri da un sagrato di una Chiesa (Rovato, BS), al potere di ispezione dei Vigili nelle case dei neo-residenti per accertare la pulizia di pareti e pavimenti (Cernobbio, CO).

L’eroico Gino Selva, blogger paziente, le censisce tutte e ne fa una mappa degli orrori. Utile per sapere che se vai a Vicenza ed hai meno di 70 anni non puoi sederti sulle panchine, mentre a Sanremo è sufficiente averne meno di 12 e più di 60 per riposarsi in un parco. Se sei una mamma di 38 anni e vai ai giardini con tuo figlio di 4 anni e tuo padre di 66 stai in piedi appoggiata ad un albero (http://ginoselva.blogspot.com/2010/01/regione-straniera.html).

Come è ovvio, fioccano ricorsi, si intasano i TAR, agisce la Corte Costituzionale.

Mattone dopo mattone si sgretola il Pacchetto Sicurezza, il Ministro della Paura minimizza, qualcuno urla alle Toghe rosse, si corre ai ripari con decreti, norme interpretative, circolari.

Fino a ieri, quando la Corte Costituzionale boccia l’eccesso di potere ai sindaci (repubblica).

Il problema, quello vero, è che questa stagione cupa di cattivismo miope ha imbarbarito le relazioni sociali, il linguaggio della politica, la vita delle persone. Non possiamo far finta di non vedere che in questo momento le storie di immigrazione e di integrazione sono spesso storie di Tribunali, di magistrati, di avvocati, di sentenze. La politica è in affanno e la Corte fa da argine alle mostruosità giuridiche, prodotte dal governo con i continui decreti legge. Plaudiamo alla decisione della Corte Costituzionale, ma riprendiamo in mano la politica. Con la pazienza e la tenacia di chi ha molto da ricucire.

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