16
Apr
2011
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Le piazze del centro restituite alla città: tra identità collettiva, tutela e fruizione

“La funzione principale di una città è di trasformare il potere in strutture, l’energia in cultura, elementi morti in simboli viventi di arte, e la riproduzione biologica in creatività sociale” (Lewis Mumford).

Parliamo di piazze auliche, questa volta. Quelle meravigliose, straordinarie piazze che Torino ha riscoperto con orgoglio e spesso fanno discutere, sulle cronache dei giornali. So che apro un argomento scomodo: ho gestito la scomodità per 5 anni. Da un lato c’è  chi vorrebbe riportare le giostre in Piazza Vittorio, chi vorrebbe metterci gazebo colorati con marche e loghi ovunque, chi vorrebbe usarle fino allo sfinimento per avere visibilità e non vuole saperne di andare a fare iniziative in altre piazze meno facili. Dall’altro c’è chi ama gli scenari dechirichiani delle piazze vuote e pulite dagli usi, chi storce il naso di fronte agli ombrelloni dei dehors, alle iniziative varie, ai palchi che fanno musica.

In mezzo la necessità di trovare un equilibrio, di tracciare dei confini, di individuare dei criteri che non siano affidati al capriccio di chi amministra o al tamponamento emergenziale. L’argomento è serio, complicato e pieno di sfumature. Quindi vale la pena affrontarlo un pezzo alla volta senza mettere tutto insieme. Qui proverei a dipanare il filo partendo dalla qualità dello spazio e dalla qualità degli allestimenti su questo spazio. E dal senso che, secondo me, dovrebbe avere una fruizione aperta del centro storico di una città. In una successiva tappa di questo viaggio cercherò di affrontare un altro tema caldo: l’uso del centro e l’equilibrio tra chi dorme, chi lavora e chi si diverte e passa il tempo. Il capitolo “movida”, uso e tempi della città lo apro dopo. Non per cautela, semplicemente perché se si mette tutto insieme non si arriva a nulla.

Partiamo da una cartolina sfocata nella memoria: ricordo il primo impatto quando arrivai a Torino alla fine degli anni ‘80:  Piazza Castello era una rotonda per automobili, Palazzo Madama sembrava un autogrill, Piazza Vittorio era grigia ed incolore, Piazza San Carlo rifletteva luci gialline e grigie di smog. Ci voleva molta fantasia per scoprire la bellezza juvarriana e barocca del centro. Io giravo con le poesie di Cesare Pavese in tasca perché, mi dicevo, se il mio poeta preferito amava Torino ci doveva essere un motivo e io dovevo sforzarmi di guardare la città con i suoi occhi.

Negli anni ‘90, con la felice intuizione dell’Amministrazione di allora, cominciò a cascata un recupero delle piazze e delle aree pedonali del centro. Dibattito consueto: bello-brutto, macchine-pedoni, parcheggi sì – parcheggi no, commercio penalizzato – commercio valorizzato. Successe per Piazza Castello, alla fine degli anni ‘90: la prima a essere trasformata. Poi le altre.

Primo punto che ci tengo a sottolineare: la riqualificazione del centro storico di Torino e delle sue piazze è frutto del lavoro, delle risorse e dell’impegno di tanti, enti pubblici e soggetti privati. Oggi ne parliamo come di “gioielli” anche grazie al lavoro sensibile di professionisti – pubblici dipendenti, funzionari delle Sopraintendenze – che hanno progettato e realizzato un recupero attento e di qualità. Forse privi di quel naturale narcisismo che spesso contraddistingue i “grandi dell’architettura”, non hanno fatto monumenti a se stessi ma hanno progettato per il bene collettivo. Penso si debba essere orgogliosi della qualità che molti funzionari pubblici  hanno espresso nella riqualificazione dello spazio pubblico. Vale ricordarlo, in tempi di anti-politica e anti-pubblico.

Ho seguito direttamente, con le ginocchia che tremavano, il progetto di arredo urbano di Piazza Vittorio che è stato il naturale completamento dell’azione di riqualificazione. Abbiamo cercato di entrare in punta di piedi su un tema difficile e delicatissimo: gli elementi di arredo sono i più leggeri e meno impattanti possibili, di pregio e qualità, ma devono tenere conto della città che cambia. Quando si progettò piazza Vittorio al massimo ci passavano delle carrozze, dei cavalli e delle parate militari. Oggi le automobili, i mezzi pubblici e l’uso contemporaneo della città la rendono uno spazio complesso e difficile.

Bisogna tenere conto degli orari, dei tempi, degli usi, dei flussi, delle attività, dei fruitori, della bellezza e della funzionalità. Bisogna tenere insieme tutti gli interessi che affacciano sulla piazza: i residenti, i passi carrabili, il carico e scarico merci, la visibilità degli esercizi commerciali, la pulizia e i mezzi dell’Amiat, i pedoni, i ciclisti, gli automobilisti. I turisti, gli abitanti, i commercianti, i vigili del fuoco, quelli municipali, i giovani, gli anziani, i bambini. E se una piazza qualsiasi produce rumore, Piazza Vittorio è un fragore di opinioni, discussioni, lettere, riunioni, arrabbiature, falli fischiati e goal parati. Una straordinaria faticaccia, che è stata possibile perché molti si sono messi in gioco.

Adesso la Piazza è completa. C’è stato un po’ di dibattito giornalistico sulla qualità degli alberelli nelle fioriere, ma anche i torinesi più conservatori ora sembrano apprezzare. Veniamo al tema dell’uso delle piazza e a quella “fastidiosa” abitudine di ospitare iniziative. Su questo il dibattito è aperto. Per quanto mi riguarda, credo che sia inevitabile trovare un punto di equilibrio tra la tutela di un luogo e la sua fruizione aperta e universale. Le città storiche sono il frutto di stratificazioni d’uso e funzioni, di memorie, di identità e le piazze nascono per ospitare mercati, parate militari, processioni, fiere di cavalli. Nascono come agorà, come spazi di relazione tra persone.

Noi contemporanei ereditiamo un patrimonio delicato ed abbiamo il dovere di tutelarlo, proteggerlo, salvaguardarlo, sapendo però che i centri storici sono luoghi di identità collettiva, nei quali ci si riconosce e si da senso al proprio essere comunità locale. Il fatto che in questi anni molte iniziative siano organizzate in centro è il segno che questo è un luogo di tutti, non solo di chi ha la fortuna di abitarci.

Abbiamo cercato di individuare modalità oggettive per  essere attenti nell’evitare iniziative commerciali e di dubbio gusto. Perché in democrazia non esiste un Principe che decide cos’è bello per il popolo. Ci sono criteri e requisiti che valgono per tutti, che spetta alla politica definire e far rispettare. Naturalmente è un tema che fa discutere, e ancora ne discuteremo. Ma sterilizzare i centri storici nella loro esclusiva fruizione museale rischia di farli morire. Perché le città storiche, le città europee e quelle italiane in particolare, dentro le mura hanno prodotto bellezza, mixitè sociale e funzioni integrate. Sta a noi contemporanei tutelarle facendole vivere.

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