20
Ott
2017
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Complicità di stupro e ombra del giudizio. Perché anche #meToo serve ad uscire dalle caverne

Troia, puttana. Zoccola. Cagna. Dillo che ti piace. Ti piace, puttana. Le è piaciuto, a ‘sta puttana. Urlava e piangeva. Le è piaciuto.

I corpi violati non sono corpi di donna. Non sono sorelle, amiche, compagne, madri, individui, persone.  Bambine. Anziane.  Lo stupro spersonalizza il corpo, lo rende ammasso di carne, disumanizzato.

Le sfumature sono molte, in questa storia che dura da sempre ed in tutte le geografie.

Le sfumature sono tante ma hanno un solo aggettivo: sessuale. Aggettivo che specifica e rende specifica la violenza, tra tutte le violenze. Aggettivo che non ha niente a che vedere con il sostantivo – sessualità, che fa rima con libertà.

La mano sul culo quando sei ragazzina, l’insulto urlato mentre cammini veloce e con le gambe strette per non mostrare paura. La violenza del lupo cattivo, dell’estraneo.  Del branco. La violenza di chi esercita potere e stringe nelle mani il tuo destino. La violenza di chi paga per averti. La violenza sulle donne con il prefisso trans che autorizza a punire per il tradimento di non essere restate uomo. La violenza per punirti, umiliarti, umiliare la tua genìa e la tua condizione prigioniera, profuga, in fuga.

Oppure lo stupro di quando dici di no anche quando, forse, hai amato ma ad un certo punto dici di no, perché no. Perché basta. Questa sfumatura è tra quelle di cui non ti perdoni: in qualche modo hai amato quel animale che ti sta addosso. Ti ricorda che sei corpo e per di più complice. Puttana. Carne che oltraggiosamente dice di no e non ne ha il diritto. Sei proprietà, possesso e sul tuo corpo si sfoga la rabbia di non poterti più avere.

Le sfumature sono molte, in questa storia.

L’archetipo, la costante, è che sei donna. E quindi un po’ puttana. Di te, del tuo intero, dei tanti pezzi che ti compongono, c’è quello: il corpo, l’ammasso di carne. Non conta altro: per qualche secondo, minuto, ora, giorno sei quello. Solo quello. Corpo, ammasso di carne.

Quell’archetipo ti si appiccica addosso. Impari a farci i conti – bene o male –  fin da bambina. Talvolta capita che non riesci a sfuggire e allora diventa tuo anche quando riesci finalmente a lavarti. A farti scivolare addosso acqua che purifichi, lavi, che porti via quell’odore di morte e paura che ti ha reso complice perché non hai saputo sottrarti.

Quell’archetipo è lo sguardo che ti resta negli occhi quando rimani sola, spezzata, liquefatta. Interiorizzi quello sguardo, anche quando lo rifiuti, perché sai che te la sei andata a cercare, che non dovevi accettare quel passaggio, che non dovevi uscire di casa vestita così, che non dovevi rimanere sola, che non dovevi bere, che non dovevi aprire la porta. Che non dovevi  cedere. Non dovevi attirare lo sguardo. Non dovevi provocare la rabbia. Non dovevi  sopravvivere.

Come una noce nella nuca, il cervello si raggrinzisce intorno a quello sguardo e diventa così tuo da non farti più aprire la gola per urlare. L’acqua scivola ma sei sporca e quell’odore non va via. Ti copri, lo copri. Preghi che nessuno si accorga di quanto sei sporca. Fai schifo, ti fai schifo. Perché è colpa tua se è successo. Tua, perché sei donna, puttana, carne e non sei riuscita a nasconderlo.

Gli occhi dei corpi violati sono spenti, abbassati. Non sopportano la luce che mette in mostra i corpi feriti. Si vergognano. Le bocche dei corpi violati fanno fatica ad aprirsi, ad emettere suoni. Non raccontano. Non subito, talvolta mai. Tendono a minimizzare, ad abbassare la soglia del dolore. Che è livido, taglio, bruciore. Ma è sporco. Uno sporco che resta, anche quando l’acqua scivola per portarselo via.

Vergogna e minimizzazione: non è successo a me, non può essere, forse ho equivocato, forse me lo sono meritato, forse è vero che sono così. Sporca. Donna, Puttana. Carne.

L’archetipo ha due facce: quella del carnefice e quello della vittima. Così antico e profondo da essere difficilmente decifrabile, anche quando si è libere e forti. Ancora di più, se si è libere e forti, perché non si sa da dove ti arriva quel genoma cavernicolo che ti fa sentire responsabile perché sei preda. Ombra ancestrale che salta fuori senza perché. E ti senti in colpa per quell’odore di caverna, ossa, umido che ti senti addosso. Ammasso di carne spaventato. Ti vergogni di sentirti vittima, perché non vuoi esserlo, perché odi la condizione di  vittima.

Paura, vergogna, minimizzazione.

Paura, paura immensa che gli uomini della tua vita – i padri, i fratelli, gli amanti, gli amici – corrano fuori a vendicare l’onta lasciandoti dentro la caverna, sola con il tuo sporco. Oppure, che non riescano più ad avvicinarsi perché avvertono quell’odore e non riescono più a sentire il tuo, quello di quando eri innocente. Un odore che ti ha marchiato, l’odore di un altro, anche se non l’hai scelto.

Paura, paura immensa del giudizio: dove eri, perché te lo sei fatto fare, perché sei uscita, perché eri lì, perché l’hai guardato,  perché hai bevuto troppo, perché l’hai amato, prima. Come hai fatto a fidarti. Perché sei così. Perché sei così sporca, così debole, così fragile, così poco attenta. Così ribelle, così rassegnata. Perché lo hai permesso.

Il giudizio, arriva. Arriva come una seconda pelle. Lo anticipi, giudicandoti. Spesso arriva da chi dovrebbe proteggerti: amici, operatori di sicurezza, operatori sanitari, parenti. Madri, sorelle. Altre donne che alzano il sopracciglio. Arriva, o forse te lo immagini così tanto che hai un’infinita paura di farti sfiorare dallo sguardo degli altri. Può capitare di  arrendersi  prima ancora di aver combattuto, perché si ha il terrore della sconfitta. Che ti trascinerebbe in fondo alla caverna senza farti più uscire.

Minimizzi prima ancora che lo facciano gli altri: era solo uno sguardo, una corsa nel buio, una parola detta ad alta voce. Era solo una carezza, uno scherzo. Un gioco. Non voleva farti del male. Una volta ti amava, forse, e non ti ha stuprato. Esagerata, non drammatizzare, non farla lunga. Dimentica. Non ci pensare più. Dopo tutto. Dopo tutto tu.

Paura, vergogna, minimizzazione. E silenzio. Acqua che scivola per lavare lo sporco. Sguardo abbassato, penombra. Vita che continua, dopo tutto. C’è sempre quell’odore di morte che talvolta morde il collo. Quello stringersi con le braccia per tenersi insieme, per non far andare via i pezzi, per non frantumarti.

Perché non l’hai detto, perché non hai denunciato, perché non hai affrontato un processo, perché non hai urlato, perché non lo hai inchiodato quel bastardo quando dovevi farlo. Cosa nascondi, cosa non dici. Troppo facile dirlo adesso, ora, a questo punto. Troppo vigliacca, troppo paracula. Magari ti è piaciuto. Magari tu. Donna, puttana, carne.

Invece si dice quando si trovano le parole per dirlo.

Alcune ci riescono subito. Altre mai. Altre ancora quando quell’odore è riuscito ad attenuarsi. Quando il contesto in cui vivi comincia a parlarne. Quando sei diventata così forte che non hai più paura.

Quando scopri – come una sorpresa, un affanno, un incanto – che se avessi parlato quell’odore sarebbe stato condiviso. Che avresti trovato braccia capaci di stringerti, forse. Senza giudizio, solo con un infinito dolore. E ti maledici per non averlo fatto. Però ricominci ad annusare odore innocente. A volerti di nuovo bene.

Si dice quando pezzettini di umanità – uomini e donne – abbandonano le caverne e cominciano a trovare le parole per dire che, no, non è normale. Non è giusto.

Non importa se è sempre stato così. Non importa se dopo c’è stata una carezza, un vestito, un lavoro, uno sputo, un oltraggio, un calcio.

Non è giusto, non è normale perché ora qualche metro in più lo abbiamo compiuto, dalla caverna ci siamo usciti da un po’. Quell’ombra che nasce da dentro possiamo cambiarla. Quell’archetipo che tiene insieme carnefici e vittime si può sovvertire.

Così i nostri figli impareranno che quel genoma delle caverne è obsoleto come i denti del giudizio. Li educheremo ai sentimenti, al rispetto e a rifiutare lo squallore di possedere corpi violati o ricattati.

E le nostre figlie impareranno che non c’è colpa ad essere donne e pretenderanno di non essere corpo. Carne. Mai. E sapranno che non avranno bisogno né di urlare né di tacere, per camminare nel mondo.

 

PS. In Italia 4 donne su 10 hanno subito violenza o molestia sessuale. Il 62% degli stupri è commesso dai partners, attuali o ex. Il 10,2% sono stati subiti da ragazze prima dei 16 anni. I dati ISTAT (2015) si riferiscono esclusivamente ai reati denunciati: la punta dell’Iceberg. Poi c’è il silenzio, e quell’odore che non va via neppure con l’acqua che scivola. Di cosa stiamo parlando?

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