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Mag
2024
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Riaffermare il “diritto alla città” come questione fondamentale

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Pubblicato in Letture Lente, Agenzia CULT

Durante la pandemia irruppe nel dibattito pubblico italiano il concetto di “città dei 15 minuti” che la Sindaca di Parigi, Anne Hildalgo, stava implementando con il contributo teorico e scientifico di Carlos Moreno, sociologo e urbanista francese di origine colombiana.

La suggestione arrivò semplificata e divenne una sorta di mantra post – pandemico: la città vivibile è quella dove servizi, centri pubblici, luoghi urbani sono a distanza breve. Questo per permettere la limitazione degli spostamenti, la decentralizzazione delle funzioni, la prossimità della vita pubblica e cittadina.

Poco se ne fece, in termini di politiche. Poco rimane di quella suggestione se non qualche interessante sperimentazione in alcune città.

L’esplorazione del concetto, per i francofoni, permise di capire che la strategia messa in campo da Hildalgo era precedente al periodo pandemico, frutto di scelte draconiane e coraggiose partite durante il suo primo mandato, nel 2014 e che rischiarono di farle perdere le elezioni nel 2020. Perché ripensare e riorganizzare la città – qualsiasi, non soltanto una complessa come Parigi – significa affermare una visione che scontenta tutti nel breve periodo. E dotarsi, come policy maker, della collaborazione di pensatori visionari come Carlo Moreno.

Adesso finalmente arriva, tradotto da ADD Edizioni, il saggio di Carlo Moreno “La città dei 15 minuti – per una cultura urbana democratica” che ci riporta dentro la complessità del concetto che mette in discussione profondamente i paradigmi su cui si è fondata la cultura urbana contemporanea e la stessa idea di “smart city” che “riduce l’esistenza della città a un solo punto di vista, ad una sola analisi che (..) oggi è simbolo di un fallimento” [1].

Moreno ci ricorda, al contrario, che intervenire sulle città significa adottare paradigmi complessi per interpretare e immaginare nuovi scenari, individuare nuove parole-chiave per disegnare prospettive di trasformazione partendo dalle risorse, dai vincoli, dagli interessi della città.

Cita Edgar Morin – maestro di pensiero complesso – “Caratteristica della conoscenza e del pensiero complesso è che entrambi necessitano di un legame tra saperi che oggi sono separati e compartimentati. Poiché la tendenza dominante è il pensiero riduttivo, riduciamo le città a pure questioni di architettura, urbanistica e mobilità” [2].

Invece sappiamo che il pensiero riduttivo ci porta a percorrere le stesse strade, tutte sbagliate.

Adottare il pensiero complesso, ci ricorda Moreno, significa avere la consapevolezza che la città è una stratificazione di significati storici, culturali, sociali, economici ed urbanistici sui quali agire la complessità per riaffermare il “diritto alla città” [3] come questione fondamentale:

“Questo è il cuore del libro. Tra la nascita delle città, l’esplosione del fenomeno urbano, dalle città globali alle iper-regioni, come recuperare quanto ci è di più caro, ossia vivere nell’umanità ed esserne degni? Cosa fare della visione di alcuni, di un mondo che, alla soglia del 2050, sarà condiviso da umani, robot, intelligenze artificiali le cui interazioni cresceranno sempre di più” [4]?

Abbiamo bisogno di un nuovo “UMANESIMO ECOLOGICO” – scrive Moreno – che permetta di rispondere alla domanda di Italo Calvino [5] “dov’è la città dove si vive?”.

Un nuovo umanesimo ci permette di parlare di città come corpo – fatto di carni, ossa, muscoli e neuroni specchio– e non soltanto come scheletro – insieme di infrastrutture rigide e fisiche.

“La città vivente è un organismo complesso e la maniera di costruirla non deve essere più dettata dalla verticalità della tecnologia o dell’architettura. Deve essere una città in ascolto, alla ricerca del suo ritmo, del suo respiro, un processo che prevede tempi lunghi. (..). la nozione di città vivente è profondamente legata all’idea di metabolismo urbano” [6].

La città, quindi, è un corpo di cui dobbiamo riprogettare il metabolismo circolare di tutte le sue funzioni. Metabolismo che deve essere inteso come meccanismo biochimico, ovvero l’insieme di trasformazioni che consentono il mantenimento vitale degli organismi viventi.

In greco antico metabolè   significa mutazione e cambiamento. È un processo che tiene in vita gli organismi viventi. Se le nostre città sono organismi viventi, sono però corpi malati, ammaccati, ecologicamente insostenibili, socialmente diseguali. Noi contemporanei, infatti, abbiamo ereditato dal ‘900 città obsolete, fragili, disseminate di vuoti urbani, spazi senza funzione, patrimonio fisico senza prospettiva. Le nostre città hanno infrastrutture inadatte alla transizione ecologica, energivore e inospitali.

L’URBS è ammalata, ferita e ospita una CIVITAS frammentata, molecolare, conflittuale, ineguale. La POLIS stenta ad avere visioni complesse e condivise.

La città pubblica è in crisi, malata e vulnerabile. Per questo è urgente, indispensabile, necessario mettere in moto un nuovo metabolismo che ci faccia ricucire urbs, civitas e polis.

La pandemia ci ha costretto a prendere atto, in modo indifferibile, della nostra vulnerabilità come geografia umana, come sapiens perennemente in sospeso tra catastrofe e progresso.

La perdita degli usi del ‘900 ha determinato un impoverimento delle pratiche sociali e culturali nello spazio pubblico, schiacciato tra rendita fondiaria ed economica, istinti securitari, privatizzazione e chiusura dei luoghi pubblici su cui l’urbano ha fondato storicamente, almeno in Italia ed in Europa, il suo modello di società.

Più che rigenerare – termine ormai abusato – abbiamo l’urgenza di ri-metabolizzare le città.

Questo significa:

  • Ripensare le città policentriche, adattive e capaci di generare prossimità, non solo come elemento di nuova socialità e di nuovo civismo, ma come costruzione di vicinanza delle persone ai luoghi della produzione, del lavoro e dei servizi.
  • Riflettere sulla città pubblica, i commons e i beni comuni per individuare strumenti, produrre nuovo valore sociale ed economico nelle città, nuova democrazia e quindi nuovi processi inclusivi.

“Lo sviluppo dei beni comuni garantisce che la città non sia sottomessa alle logiche di mercato: attraverso i beni comuni digitali lottiamo contro le piattaforme che distruggono valore, qualità della vita e lavoro, come AirnBnb, Uber, Amazon. Attraverso una migliore gestione dei beni fondiari lottiamo contro la speculazione immobiliare” [7].

Il periodo pandemico ci ha posto nuove domande che hanno l’urgenza di avere risposte:

Quanto lo smart working può generare un nuovo pensiero sui luoghi di lavoro, sulla mobilità, sul pendolarismo?

Quanto la creazione di spazi condivisi e di prossimità, dove lavorare, istruirsi ed incontrarsi, permette anche una fruizione culturale e sociale?

Come riorganizzare i servizi pubblici alla luce di una nuova domanda di prossimità digitale? Come tutto questo produce uguaglianza o quanto piuttosto non ripropone disuguaglianza? Chi ha accesso alla città prossima e chi non ce l’ha?

Moreno – con la suggestione della città dei 15 minuti – parzialmente risponde:

“È un percorso che vivifica le nostre città, che le rende più vitali, più umane e benevole. E così risponderemo alla domanda di Italo Calvino perché sapremo dov’è la città in cui viviamo: è quella che ci dà senso, emozione, ci regala sensazioni e il piacere di ritrovare la nostra dignità” [8].

La città dei 15 minuti, in ultima analisi, non è un progetto urbano. È prima di tutto un atto d’amore per l’urbano che è in noi, abitanti smarriti del pianeta.

 

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Carlos Moreno, La città dei 15 minuti, ADD Edizioni, P. 21

[2] Edgar Morin, Terra-Patria, Cortina Edizioni, 1994, p. 57 e 190

[3] Henri Lefebvre, Il diritto alla città, Ombrecorte 2014

[4] Carlos Moreno, ibidem, P.15

[5] Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi

[6] Carlos Moreno, ibidem, P. 29

[7] Carlo Moreno, ibidem, P.142

[8] Carlos Moreno, ibidem, P.157

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