17
Mar
2014
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PORTAMI SU QUELLO CHE CANTA: storia di un balcone, di un cortile, di una città e dei suoi spazi di libertà

Tutte le domeniche dalle 17 alle 18 Daria e Maksim aprono le finestre del loro minuscolo appartamento e cominciano a cantare dal balcone. Un balcone minuscolo che si affaccia su un piccolo cortile del centro di Torino.

Hanno cominciato così, lei con la voce da soprano e lui con la chitarra.

Il cortile, a poco a poco, si è popolato. L’appuntamento alle 17 è diventato un modo per ritrovarsi, stare insieme, sedersi per terra, guardare a naso in su, ascoltare.

Viralmente si è sparsa la voce, anche in quella comunità di artisti torinesi che riempiono la città in modo carsico, fuori dai circuiti dello showbiz conclamato.

Quella comunità di artisti che sopravvive al precariato, occupa i circoli ARCI e le case del Quartiere, suona a cappello e combatte ogni mese per pagarsi l’affitto eppure non farebbe nulla di diverso, se potesse scegliere.

Musicisti, poeti, cantautori, teatranti.

Quelli, e sono tanti, che agiscono arte e cultura perché pensano sia un atto politico o quantomeno civile. Quelli che hanno “vite sfasciate”, come le descrive uno dei loro cantori, Federico Sirianni. Quelli che non parlano di cultura diffusa ma la fanno, la praticano faticosamente, la costruiscono con i mille lavori che si inventano per poter continuare a farla.

Quelli che bevono una sambuca con la mosca a fine concerto insieme al loro pubblico. Che vanno ad ascoltarsi quando non suonano loro, diventando di volta in volta protagonisti e pubblico. Quelli che riempiono gli sfridi della città e la rendono migliore, senza che si sappia troppo.

Sul balconcino, alle 17, ci sono saliti tutti. A turno, regalando a Daria e Maksim la loro solidarietà. Donando ai passanti un’ora di poesia, musica, parole.

E’ una piccola storia romantica e potrebbe finire qua. Pensando, semplicemente, a quella magia della vita urbana che fuori dagli schemi irrompe nella vita collettiva e offre un altro punto di vista. La magia della città che, da sempre, occupa i vuoti riempiendoli di senso.

La città come luogo dell’incontro, della sorpresa, dell’incanto e dell’intreccio.
Invece non finisce qua, questa piccola storia romantica. Bisogna riprenderla in mano e provare a dipanarne il senso, quello vero e profondo. Quello che appartiene alla vita della città, agli interessi che si scontrano, ai bisogni di ciascuno che sempre meno fanno i conti con i bisogni di tutti.

Il balconcino e il suo cortile sono la metafora della fatica a ritrovarsi – dentro la città – negoziando il proprio spazio privato, individuale con quello comune, collettivo, sociale.

Succede che alcuni condomini protestino con l’Amministratore di Condominio, succede che altri invece scendano in cortile con la sedia e decidano di resistere. Capita che questa ora di poesia urbana rischi di diventare terreno di conflitto, regole, norme, codici, leggi. Raccomandate, notifiche, diffide, carte bollate.

C’è antropologia urbana in questa storia: la difficoltà a riconoscere lo spazio comune come spazio di tutti, capace di includere e aprire opportunità. Sconta la paura dell’altro, dell’estraneo che entra in un cortile, proprietà privata, minacciando lo spazio privato di qualcuno.

Non è una storia diversa da quella che si è scatenata quando abbiamo cambiato il regolamento di Polizia Urbana vietando ai condomini di vietare il gioco dei bambini nei cortili. Un pezzo di città chiedeva alla politica di chiudere gli spazi, regolamentare il buon senso, vietare l’imprevisto. L’altro pezzo di città rivendicava la libertà dei bambini di usare la città e i suoi cortili per crescere e imparare dagli altri.

Come scriveva qualche giorno fa Matteo Negrin, maestro di chitarra che su quel balcone ci è andato più volte: “Senza musica la mia vita sarebbe stata come un cortile senza pallone“.

Questa è una storia di musica, cortile e pallone.

E’ una storia non  troppo diversa dal conflitto quotidiano sull’uso dello spazio pubblico e la relazione tra il giorno e la notte.

La ricerca degli equilibri tra diversi interessi che si producono nello spazio urbano sarebbe compito della politica. Non solo dell’Amministrazione, non soltanto dei regolamenti e del controllo. Anche della Politica, parola che viene da polis, città.

E’ responsabilità nostra – gli Amministratori della Città, certo – ma anche della città nel suo insieme.

E’ nella città che si produce politica, se questa è intesa come sforzo collettivo e sociale di ricercare il bene comune, quello che allarga il perimetro degli inclusi, che si sforza di mettere insieme interessi apparentemente inconciliabili.

La posta in gioco, quindi, è alta, altissima.

Perchè la vita urbana, fatta di moltitudine di interessi individuali e collettivi, non può regolamentare l’imprevisto, promettere silenzio assoluto, eliminare dalla scena tutti coloro che non hanno voce ma se la prendono lo stesso, semplicemente perché esistono e non si nascondono.

Se si elimina la capacità di riconoscersi nell’altro – sia un musicista da balconcino, un giovane che vive la notte, un bambino che gioca in cortile – non c’è norma che tenga.

Si riproduce semplicemente una società fondata sul rancore, su quello che Massimo Ilardi – sociologo urbano – definisce “l’egoismo metropolitano che si relaziona con il potere senza passare dalla politica”. In cui vince sempre la minoranza urlante, quella che non riconosce l’esistenza della maggioranza silenziosa.

Ci si fronteggia come due eserciti – i pro e i contro – e ci si guarda in cagnesco senza avanzare mai di un passo. Si segregano i pezzi, si rinuncia a quella straordinaria mescolanza che è la città, da sempre, da quando esiste. Da quando si erigevano mura per difendersi dall’esterno, ma dentro la città si mescolavano poteri, interessi, funzioni, classi sociali, generazioni.

C’entra, la democrazia, in questa storia. Come c’entrano la libertà, i confini con la libertà degli altri, il piacere ed il senso della vita urbana come relazionalità e non solo scontro e conflitto.

In quel cortile si riproduce – in vitro – tutto quello che si aggroviglia e si scontra in una società fondata sul rancore.

Sarebbe più semplice tapparsi le orecchie se non si vuole ascoltare, uscire di casa e stare con gli altri, sopportare un’ora di rumore, se proprio non si ha intenzione di canticchiare sulle note di Ederlezi cantata da Daria con la sua voce da soprano.

Sarebbe ancora più semplice ricordarsi le aje delle cascine, i cortili delle case senza televisioni, i balli al palchetto dove ci si baciava per la prima volta con la ragazza che abitava di fronte, fuori dal controllo dei genitori.

Basterebbe rispolverare un po’ di memoria ed interrogarsi sul senso, della proprio ritmo di vita e di quello degli altri.

Per scoprire, forse, che un’ora di musica che entra nel proprio appartamento non è un’invasione ma un regalo. Piccolo, minuscolo come il balconcino.

Scriveva Cesare Pavese – che di Torino e la sua regola ne ha fatto poetica e letteratura:

“E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore-perfino i bambini.”

Se questo fosse il terreno dello scontro – libertà e ricerca dell’ equilibrio – potremmo addirittura recuperare la politica. Che viene da polis, che vuol dire città.

 

 

 

 

 

 

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