6
Mar
2012
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Uomini che odiano le donne. Riguarda noi, tutte. Una ogni tre giorni

 E’ un pretesto parlarne oggi. Parlare di donne, diritti, violenza e pari opportunità nella settimana dell’8 marzo sembra pure retorico, a ben guardare. Come se si aprisse una finestra del calendario dell’Avvento e poi si richiudesse subito dopo.

Uso consapevolmente questo pretesto  anche per reagire un po’ alla retorica ambivalente che zampilla in qua e in là. Donne e diritti. Immigrazione al femminile. Violenza sulle donne…bene, parliamone.

In questi giorni sarò a molte tavole rotonde, parteciperò a numerosi dibattiti, cercherò di entrare nel merito e di rispondere a tema.

Però c’è qualcosa che mi disturba, in generale. Spesso quando si parla di violenza sulle donne, passa l’idea che riguardi le altre. Le immigrate. Oppure le donne socialmente deboli o che vivono in contesti di sub cultura maschilista, di condizioni estreme, di povertà culturale.

C’è la cronaca che ci ricorda che non è così: 20 donne ammazzate dai mariti o dai compagni dall’inizio dell’anno. Due in questo weekend. Duecento nell’ultimo anno e mezzo. Una ogni tre giorni.

Delitti per cui si scomoda un aggettivo che sembra giustificare o attenuare l’assassinio. Delitto passionale: subdolamente questa definizione lascia intendere che, prima, c’era un grande amore. E di fronte al grande amore scatta la tentazione di ridurre la storia a melodramma. Unico e irripetibile.

Eppure la passione è poesia, amore, sentimento forte e contraddittorio. La passione spinge a scrivere versi immortali, a soffrire di umanità sconsolata. Il cuore ti si spacca, consumi lacrime e notti insonni. Ami, di passione amorosa. Ti struggi  e ti attorcigli intorno all’oggetto del tuo amore che sfuma e si allontana. Scrivi canzoni o piangi sulle spalle di un amico.

Qui stiamo parlando di potere, non di passione. Del potere che non sopporta la libertà. Che non rispetta la scelta.

Stiamo parlando dell’esercizio disumano del potere che si alimenta con la paura. Che prima agisce con le parole, il disprezzo, l’annientamento psicologico. Poi cresce, deforma i pensieri, si trasforma in ossessione, botte, aggressione, omicidio. Distruzione assoluta: se non puoi essere mia non potrai essere di nessuno. Io sono il tuo carnefice: puoi amare solo me. Non c’è vita fuori da me.

Le statistiche restituiscono l’enormità del fenomeno fino ad un certo punto.

Alzi la mano chi non sa di cosa sto parlando. Alzi la mano quella donna che non ha vissuto il potere delle parole, la distruzione dell’identità, la violenza lieve o bestiale sul suo corpo da parte di chi ama o ha amato.

Saranno 6 su 10, quelle che alzeranno la mano. Le altre abbasseranno gli occhi e non lo racconteranno. Saranno, statisticamente, professioniste, studentesse, operaie, impiegate, disoccupate, casalinghe. Donne normali che si sono innamorate di uomini normali. Molte avranno studiato, alcune verranno da ovattati ambienti borghesi e socialmente ineccepibili.

Le sopravvissute all’amore cieco non raccontano. Perché si vergognano. Provano vergogna a raccontare che ad un certo punto della loro vita è successo che si sono trasformate in bestioline impaurite, inermi stracci nelle mani di qualcuno che, per eccesso di amore, le ha calpestate fino a ridurle in pezzi. Donne che hanno amato uomini che odiano le donne.

Quando ce la fanno, quando sopravvivono le donne vittime di violenza vogliono dimenticare. Chiudono le ferite nel cassetto, non lo mettono a disposizione di altre donne. Perché continuano a pensare, in fondo, di essere colpevoli. Non riescono a liberarsi dall’idea che è dipeso da loro se l’altro si è trasformato in carnefice. Dalla loro debolezza, dalla loro incapacità o inadeguatezza.

Il senso di colpa, verso se stesse prima di tutto, ammutolisce e costringe alla rimozione. Così si perpetua quel meccanismo insano per cui soltanto i corpi ammazzati raccontano della violenza. Quei corpi che non possono più raccontare e così si conquistano un titolo sui giornali.

Corpi che non possono raccontare cosa è successo prima di morire: la paura, il guardarsi alle spalle, la disperazione della solitudine, la persecuzione da parte di chi non vuole, non ammette, non sopporta che l’amore possa finire. Perché è possesso. E quando una cosa che si possiede sfugge, la tentazione di trattenerla a forza arriva ad accecare la ragione. L’amore non ha nulla a che fare con il possesso. Si possiede una cosa, un oggetto, una casa, un libro. L’amore non si possiede, si conquista o si lascia andare.

In questo paese, oggi, c’è un emergenza. Ce ne sono tante, è vero. Ma questa emergenza è talmente sottile e sfumata che non riesce nemmeno a diventarlo. Perché le morte ammazzate non parlano, e le sopravvissute si vergognano.

Nei dibattiti pubblici, quante volte mi capita, ad un certo punto qualcuno tira fuori Hijna, la ragazza pakistana ammazzata dal padre. E allora si generalizza: le donne musulmane sottomesse alla violenza dei loro uomini. Chi tira fuori questo argomento sono in genere uomini e normalmente appartenenti a forze politiche che dei diritti delle donne se ne fanno un baffo. A meno che non siano donne musulmane o immigrate. Allora il tema della parità diventa la giustificazione di una supposta superiorità della nostra cultura.

Invece? Duecento donne ammazzate in un anno e mezzo dai propri partners. Una ogni tre giorni.

Scusate, ma di cosa stiamo parlando? Di quale cultura stiamo parlando? Quattro donne italiane su dieci hanno subito, almeno una volta nella vita, violenza dentro le mura domestiche.

Fino a pochi anni fa lo stupro era un reato contro la morale. Se consumato dentro le mura domestiche ancora oggi è reato controverso e da dimostrare. La legge sullo stalking e le molestie è stata un passo avanti ma bisogna avere la fortuna di trovare bravi avvocati, bravi operatori della giustizia, bravi psicologi per denunciarlo. Se si denuncia. Perché molto più spesso si prova in solitudine a sfuggire al proprio carnefice o a subire in silenzio. Vergognandosi e nascondendo con il correttore le occhiaie delle notti insonni e dei lividi lasciati dal troppo amore. In questi anni, per fortuna, è cambiato il quadro giuridico ma rimane l’archetipo, la paura, il silenzio sociale.

C’è un’emergenza e quando se ne parla si traccia il profilo psicologico del carnefice. Di lui sappiamo tutto.

Delle vittime non sappiamo niente. Non sappiamo cosa succede, ad un certo punto, nella vita della vittima quando decide che non ce la fa più. Quando prende in mano la sua vita per ricominciare a vivere. Ed è in quel momento che rischia di più. Quando sceglie la libertà. Quando rinuncia ad essere vittima inerme e drizza le spalle. Le vittime sono assenti, in questa cronaca di morte ammazzate.

C’è un emergenza, in questo paese. Che è politica e sociale insieme. Antropologica e culturale.

Parliamone l’8 marzo. E tutti i giorni che seguono. Facciamo in modo che ne parlino i nostri uomini, amici, compagni. Padri e fratelli.

Senza generalizzare e senza, soprattutto, parlare delle altre. Parliamo di noi. Donne del terzo millennio e uomini che odiano le donne. E’ talmente interculturale la violenza sulle donne che non serve scomodare la cultura per parlarne. Basta l’umanità. E il senso del limite. Per amarsi da esseri liberi. E liberarci dagli stereotipi.

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