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Dic
2011
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Il ratto delle Sabbrine: chiediamo scusa agli innocenti

Quartiere Vallette, Torino 2011. Laddove si incontrano i margini geografici e sociali della città. Alle Vallette ci sono tante cose. Ci sono scuole pubbliche che educano ancora, educativa di strada che ancora raccoglie ragazzini. C’è lo Sport di Borgata, ci sono le parrocchie e gli oratori. Le bocciofile e i centri anziani. Le case popolari, gli scampoli di fabbriche rimaste, i vuoti di quelle che non ci sono più, gli alberi di Corso Cincinnato, l’ultima fattoria di città che produce latte e formaggi, le aree verdi che hanno bisogno di essere un po’ sfalciate. Le associazioni, i pensionati attivi. I giovani disoccupati. Le madri sole. Ci sono gli ultimi, i penultimi e chi invece ce l’ha fatta. Ci sono i buchi della città che cambia, le aree marginali dove si vive degli scarti. Come tutti i quartieri di tutte le città, è un prisma dalle mille facce. Fatto di violenza e generosità, di fatica e di solidarietà. Di presenze e di assenze. Di vite appese, vite perdute, vite incluse e vite ai margini.

Vallette, nell’iconografia della Torino dura, è un quartiere difficile. Negli anni ’60 cominciò lì la sperimentazione del tempo pieno nella scuola pubblica: i ragazzini buttati giù dal treno del Sole e stipati nelle case costruite in fretta trovavano a scuola il modo di stare insieme e di imparare l’italiano. Si cresce in fretta nei cortili delle case. Succedeva prima, succede adesso. Nella durezza che oggi è diversa nelle forme ma uguale nel modo.

Quello che è successo ieri sera non è commentabile se non con lo stomaco che si chiude, con il cuore che esplode e la ragione che interroga. I penultimi trascinati dall’ordalia cieca della violenza hanno attaccato gli ultimi. Gli ultimissimi, i rom assiepati in una cascina diroccata. Quelli per cui la ricerca di soluzioni socialmente sostenibili si scontra con la fatica che facciamo, noi istituzioni locali e società civile della città, a trovare delle vie contando quasi esclusivamente sulle nostre forze. Assediati fino a ieri l’altro da un governo che stanziava soldi, e tendenzialmente alle amministrazioni amiche, fondamentalmente per sgomberare  muscolarmente senza risolverne nemmeno uno di problema. Da una Regione che ha azzerato la legge finanziata dalla Giunta Bresso sulle minoranze rom: quelle con cui noi abbiamo fatto progetti di inserimento scolastico, abitativo, lavorativo. Dove si può scrivere una notizia che accende i fuochi del conflitto senza avere verificato prima, pur sapendo che basta pochissimo per incendiare.  Perché è così facile trovare il colpevole in quegli occhi stretti che non vale nemmeno la pena usare cautela, prudenza, ragione. Poi si chiede scusa, va bene. Ma ormai la ferita fa male, malissimo.

Gli ultimissimi, i rom rumeni: donne, bambini, uomini che vivono sugli scarti della città. Con cui si prova e si fanno tentativi. Tutti per piccoli numeri: perché il lavoro c’è se ci sono le borse lavoro. Se le cooperative sociali inseriscono. Perché il privato vero non è così pronto, diciamo. Qualcuno ce la fa, si tira fuori. I bambini vanno a scuola, ma poi tornano nelle baracchine e lì il loro orizzonte si perde nel nulla del degrado. Intorno ci sono i penultimi, pieni di rabbia. Perché non serve scomodare la sociologia per sapere che le marginalità si innestano nella fatica e nei quartieri dove il sole del Buon Dio non dà tutti i suoi raggi.

Però c’è un aspetto che da ieri sera mi fa soffrire ancora di più di quanto non soffra di fronte al fatto che nella mia città, a cui vogliamo bene per la sua civiltà e la sua generosità, è successo l’indicibile.

Una ragazzina di 16 anni ha pensato che simulare uno stupro fosse preferibile al raccontare che aveva fatto l’amore.

Oggi le donne scendono in piazza: se non ora quando. Ecco, ricordiamocelo.

Ricordiamoci anche di queste ragazzine di periferia che vengono difese dal branco soltanto se si pensa che siano state violate dall’altro, l’estraneo, l’assente, il diverso. Perché, altrimenti, sono puttane.  Cosa c’è di più primordiale, primitivo, terrificante di un branco di adulti, madri e padri, che inneggiano al pogrom, che applaudono al fuoco, che non riconoscono l’umanità negli umani che scappano? Nei bambini che piangono, nelle donne che urlano?

E’ l’ordalia primitiva dello scontro tribale, del ratto delle Sabine: non toccare la mia donna. Se voglio te la prendo. Il ratto delle Sabbrine. Lasciate sole, usate come simboli di possesso.  Sole, piccole, puttane o stuprate.  In fuga nella menzogna, accusando l’uomo nero più vicino, il più facile. Quello a disposizione. L’uomo nero che le mette al riparo dalla riprovazione del branco.

Chiediamo scusa agli innocenti. Ai bambini della cascina con gli occhi pieni di paura. Ai loro genitori in fuga. Alla ragazzina prigioniera del suo primo amore che l’ha lasciata sola, sanguinante e alla ricerca di una scusa, una qualsiasi per poter continuare ad essere amata. Anche lei innocente nei suoi 16 anni così perduti.

Chiediamo scusa. Restiamo umani. E usiamo le parole con attenzione, rispetto e dolore.

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