Un nuovo Louis Armstrong a Torino? Lo dobbiamo coltivare ogni giorno: è la legge della “biodiversità urbana”
“Le leggi, come sapevano gli antichi, sono le mura della città, ma l’arte e la passione della politica si diffondono all’interno di queste mura e molto spesso conducono all’abbattimento di queste barriere, o almeno ad assicurare la loro permeabilità” (Seyla Benhabib, Yale Un.). Parliamo di cultura o, meglio, di culture. Il plurale è significativo perché la città – Torino come tutte le altre – è la metafora del mondo e della biodiversità che, con processi contradditori e faticosi, ricrea continuamente l’ecosistema di riferimento e produce nuovi equilibri. Si può adottare il paradigma delle biodiversità anche senza parlare di zoologia e tipologie di piante. Si può usare per interpretare la diversità che, nello scenario urbano, produce mutamento e adattamento.
La città è il luogo dove gli individui, i suoi abitanti, i cittadini ne compongono la fisionomia e l’identità perché si intrecciano, si contaminano, interagiscono tra loro. Nella città abitano individui portatori di significati, biblioteche viventi di senso e di memoria collettiva. Se non vogliamo ridurla a semplice palcoscenico dobbiamo investire nella sua biodiversità, che produce nuova cultura e nuovo senso. Per leggerla, questa biodiversità urbana, però, dobbiamo adottare un diverso paradigma interpretativo. Dobbiamo smetterla di parlare di centro e di periferie, di cultura alta e cultura popolare. Dobbiamo superare le gerarchie concettuali che hanno caratterizzato molte politiche culturali in Europa negli ultimi decenni.
Per chi ha letto – e sicuramente siamo almeno due – la biografia di Josephine Baker, straordinaria icona del metissage americano, è facile ricordare i bassifondi di New Orleans dove un giovane trombettista senza soldi – Louis Amstrong – emetteva suoni “per negri” dalla sua tromba. Perché il jazz e il blues erano roba da afroamericani, disprezzati e mai ascoltati dai rigidi Wasp dei “twenties” americani. Soltanto a New York, e molti anni dopo, il pubblico bianco, protestante e anglosassone irruppe nei teatri di Harlem per ascoltare la magia delle note di Louis. E soltanto nella Parigi libertaria del dopoguerra Josephine venne celebrata come artista, e non come fenomeno esotico.
Gli ingredienti per apprezzare e valorizzare la biodiversità culturale sono tanti. Intanto luoghi dove produrre e innestare creatività. Accessibili, democratici ma non tristi: la scintilla creativa nella tristezza si smorza. Per non essere tristi devono essere pieni, condivisi, curati e amati. Non necessariamente costosi e neppure glamour. Basta che non cadano a pezzi, che siano pieni di vita e che mischino pubblico, generi, competenze e professionalità. Poi ci vuole quello che gli inglesi – che hanno politiche avanzatissime su questo – chiamano “audience development”. Vale a dire l’educazione del pubblico: fare in modo che la rete diffusa delle occasioni culturali pervada la città, le scuole, i centri giovanili, i territori.
Educare il pubblico giovane significa assicurarsi, tra 20 anni, qualche abbonamento al teatro d’opera in più e quindi un rischio estinzione in meno. La scuola e i territori, in modo che un ragazzino che non ha l’opportunità di essere educato alla “cultura colta” abbia l’opportunità di scoprirne la magia. Oppure che qualche ragazzino dalle ossa lunghe ascolti le note soffiate di qualche improbabile Louis di periferia per scoprire, anche lui, di avere il ritmo nel sangue. Poi serve che la cultura in periferia non sia sempre abbinata alle parole disagio, sociale, contenimento. Altrimenti succede quello che mi è capitato tempo fa, chiacchierando con alcuni adolescenti appunto di periferia: «Ma noi stiamo nel disagio o no?». Se a 17 anni non si sogna di diventare il più bravo skater del mondo o il più famoso ballerino della storia e ci si interroga se si entra nella categoria del disagio, c’è qualcosa che non funziona. In noi, non in loro.
Ci vogliono porte aperte, spalancate. Marciapiedi invasi di occasioni. Piazze stracolme di opportunità. Basta fare fuori quello che già si fa dentro. Perché di cose, in questa città, se ne fanno a bilioni. Si fanno le nozze con i fichi secchi e spesso mancano anche i fichi ma si celebrano lo stesso. Se si aprono le porte, magari si riesce anche a condividere i propri fichi con altri e ci si diverte di più. Visto che ci sono pochi soldi da investire, tocca investire in intelligenza. Possibilmente collettiva: perché ce n’è tanta e spesso è pure generosa. Io, da tanti anni, destino il mio 5 per mille al progetto MUSE: arte e artisti nelle scuole elementari (informatevi, è un progetto bellissimo). Potrei destinarlo a miliardi di altri progetti. Ma quando ho sentito che mia figlia, nella seconda elementare pubblica e popolare, canticchiava le Nozze di Figaro perché «era una canzone che le insegnavano a scuola e che cantavano tutti insieme», ho deciso che la democrazia passava anche da questo: «Se vuol ballare, signor contino, il chitarrino le suonerò».