20
Apr
2011
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Parco Stura, scacciate le ombre: Ossigeno, cultura e società civile là dove un tempo c’era “Tossic Park”

Ci sono passata stamattina a Parco Stura. Quella è un’area complicata: sono le sponde di un fiume che non è mai stato, nella storia del ‘900 della città, una centralità. Piuttosto un dietro, un magazzino di attività difformi di cui la città valorizzata ha bisogno ma non vuole sotto casa. Lì hanno trovato, nei decenni, collocazioni spurie. Si sono insediati attività e presenze marginali o illegali: discariche abusive, orti abusivi, insediamenti abusivi. Abusivo è una parola piuttosto abusata, si può constatare da quelle parti. Non tutte le aree sono pubbliche. Anzi, parti consistenti di proprietà raccontano di insediamenti industriali delocalizzati e che non hanno più bisogno del fiume ma ne mantengono la proprietà senza fare manutenzione.

Parco Stura rientra in un importante progetto a medio-lungo termine, “Torino città d’acque” che ha riqualificato, in più di dieci anni, le sponde dei 4 fiumi di Torino: Po, Dora, Stura, Sangone. Era in attesa di interventi, quel pezzo, quando è cominciata la storia che vi racconto. La potremmo raccontare in tanti, perché è stata una scommessa collettiva. La potrebbe raccontare Beppe Borgogno, assessore alla Polizia Municipale all’epoca, che ha ancora le ossa umide da quanto tempo ha passato lì intorno.

Estate 2006: Parco Stura diventa un outlet di spaccio di sostanze di ogni genere. Velocemente, quasi senza accorgersene. La collocazione è drammaticamente ideale: vicino alle autostrade, accanto alla linea 4, parcheggi a volontà, grande e confusa area disabitata, cespugli, tronchi e collinette dove nascondersi. Ci sono appena state le elezioni amministrative, si discute d’altro, si è necessariamente in una fase di transizione. Centinaia di tossicodipendenti frequentano l’outlet, scendono alla fermata del 4, entrano negli androni, strappano una catenina o una borsetta. Le case lì intorno sono case popolari, palazzi di persone normali, di anziani, di bambini. L’atmosfera è pesantissima.

A settembre succede un fatto gravissimo, una ferita dolorosa che ancora fa male. Durante una retata gli spacciatori – quasi tutti giovanissimi ragazzi centroafricani – scappano in mille direzioni, due di loro finiscono in acqua, uno annega. Sono gli ultimi anelli della catena del narcotraffico, quelli visibili e la cui vita non vale una moneta falsa. I media nazionali accendono i riflettori: Parco Stura diventa Tossic Park e con le luci arriva tutto il resto. Politici marroni che si travestono da cittadini del quartiere e organizzano ronde. Voci urlate, scontri, parole grosse, taniche di benzina usate da certa politica per infiammare ancora di più la situazione. Il diaframma tra la protesta e il linciaggio indifferenziato è sottilissimo. Cosa facciamo?

Si decide di affrontare la situazione alla torinese: in modo pragmatico e veloce. Mentre si accelerano le procedure di progettazione per aprire il cantiere del parco, che comunque sono lunghe visto anche l’assetto delle proprietà, si fanno altre cose. Si spianano le collinette di proprietà privata, si riempiono le buche sconnesse con la terra di riporto del Passante Ferroviario. In fretta, senza aspettare un giorno di più: il segnale da dare è importantissimo e le procedure frenano, limitano, impediscono. Si fa lo stesso, con la determinazione dei funzionari comunali che si assumono responsabilità per il bene collettivo.

Si cerca di sanare una ferita: riportare la democrazia, la fiducia nelle Istituzioni, la tenuta di una collettività, la riappropriazione positiva dello spazio pubblico. Perché gli abitanti della zona nord non si meritano Tossic Park, il fuoco del conflitto, la politica che passa sopra come i bulldozer sulla vita delle persone. Montiamo un tendone da circo in mezzo allo sterrato. La sicurezza e la convivenza si ripristinano con la cultura, in attesa di avere un parco.

Ossigeno, si chiamerà: 18 mesi di aria migliore in un luogo dove si rischiava, in nome della sicurezza urlata, di far morire la convivenza. Spazio211, Metropolis e Musica90 ci mettono l’anima. Le organizzazioni culturali della città rispondono alla chiamata: compagnie di danza, musicisti, associazioni, Dj, nuovo circo, cinema, spettacoli, marionette. La Uisp organizza in estate Muoviti Positivo, un’estate per i bambini della zona nord. I DS organizzano l’ultima Festa dell’Unità prima di diventare Democratici, l’anno dopo. Le associazioni di migranti africani si mettono a disposizione, organizzano concerti, sfilate di moda, occasioni di socializzazione. Le istituzioni, tutte, stanno lì. Circoscrizione in testa: se ad alcuni di loro non spuntano le radici come gli alberi è un miracolo.

Le ombre si spostano, piano piano. La polizia di Stato, i Carabinieri, la Polizia Municipale si occupano di presidiare, controllare, allontanare, denunciare, arrestare. L’Amiat pulisce, Iride sponsorizza e illumina. Smat lava e disseta. Le realtà economiche della zona danno una mano, sponsorizzano le iniziative: Auchan, il Novotel, il Palazzo della Moda. Le Fondazioni di origine bancaria ci credono e investono. I cittadini propongono, discutono, organizzano, presidiano positivamente. Gli operatori di bassa soglia intervengono con i “clienti” dell’outlet. Ci  passiamo le notti, le domeniche, il capodanno del 2008. Guardiamo sfilare di fronte a noi i consumatori dell’outlet, diversi a seconda dell’ora del giorno e della notte: impiegati in pausa pranzo, ragazzini con lo zainetto, mamme con i passeggini, giovani della cintura torinese. Tanti, tantissimi.
 
Sappiamo con dolore che c’è offerta perché c’è domanda, e la risposta repressiva, da sola, sposta il problema, lo allontana ma non affronta il nodo, quello vero. Quello dei ragazzini che vanno a comprare coca in compagnia delle mamme. Perché si vedeva anche questo. E una società che si arrende, trasformandosi in belva che azzanna, non da risposte a nessuno. Non salva nessuno. Non garantisce sicurezza a nessuno. Una società che usa il randello e non investe abbastanza in prevenzione, che rinuncia al suo ruolo educante, non funziona. Con i cittadini di questo discutiamo: come educare, come prevenire, come affrontare e sanare una ferita. Le scuole si mettono in gioco. Non so altrove, ma qui insegnanti fannulloni non se ne vedono: educano, spiegano, raccontano, costruiscono futuro con i loro bambini.

Per curare Tossic Park, ferito duramente dalla violenza, abbiamo investito in cultura. Quella che permette di ritrovarsi, come cittadini, in un pezzo di città che è di tutti. Quella cultura che non si mangia, dice Tremonti, ma che permette di riconoscersi come esseri umani. Perché è dai tempi delle caverne che gli esseri umani uniscono l’utile al futile e mangiano cosce di mammut intorno al fuoco raccontandosi storie e suonando uno zufolo fatto di canna. La cultura e la caparbietà di chi è stato sotto quel tendone per 18 mesi di fila, allontanando le ombre cattive.

Poi, alla fine, sono arrivati gli Alpini di La Russa. Alla fine. Hanno dato un’occhiata e sono andati altrove. Il ministro avrà pensato che basta dire al telegiornale che si sceglie la tolleranza zero per far sparire i problemi. Anzi, il ministro l’ha detto: a Tossic Park l’intervento esemplare dell’esercito ha liberato il parco. Noi, per 18 mesi, abbiamo liberato ossigeno e, si sa, in un parco l’ossigeno serve. Perché quello è Parco Stura e ci abita l’airone cinerino, ci crescono gli alberi e ci crescono i bambini di Via Scotellaro e di Via Campobasso. L’abbiamo liberato a forza di merende di pane e nutella, musica e film, danza e cultura. Che non si mangia ma fa bene. E ai bambini si è cercato di insegnare, come ha detto un vecchio partigiano, “ad esser pronti alla vita, l’Italia chiamò”. Sì.

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